giovedì 10 novembre 2011

Il capolavoro del ventunesimo secolo


“A me non interessa pubblicare, io voglio scrivere un capolavoro.” Disse il ragazzo con i capelli legati a coda di cavallo e sporchi allo stesso modo.
“Tu sei scemo, scrivilo prima e poi ne parliamo. Vedrai se non arriva pure quello che vuole fare i soldi scrivendo.” Disse il giovane facendosi strada per entrare.
“Io! Io voglio fare i soldi scrivendo!” Rispose un altro, scendendo dal suo scooter comprato a rate, con l'avallo di papà.
“Va bene, sei scemo anche tu, ogni tanto ne capitano due insieme, d'altronde siete talmente numerosi.”
Il giovane editore infilò la chiave del suo, per ora, modesto ufficio e andò alla scrivania. Ma prima chiuse la porta, senza sbattere perché era un giovane ben educato, come si diceva nei secoli precedenti.
Tolse un po' di manoscritti dalla sedia che aveva rubato dalla cucina di sua madre e accese il computer.
Si guardò intorno cercando dove appoggiare i fascicoli mal rilegati che teneva in mano, poi li mise sopra la vecchia stufa che stava lì solo per bellezza, visto che era un vecchio rudere che non usava mai.
“Però potrei cominciare.” Pensò soppesando i manoscritti.

“La colpa è mia che vado cercando il capolavoro, come se ne nascesse uno a settimana. Ma la gente non vuole più faticare, vogliono bruciare le tappe senza neanche percorrere la strada. Non ne posso più di copie di copie. Libri che sembrano brutti riassunti di libri che già erano brutti nell'originale.
Ma come si fa? Probabilmente prima o poi mi toccherà cambiare lavoro perché il libro che sfonda le classifiche, che mi fa fare un sacco di soldi e fa diventare grande la mia casa editrice, chissà se esiste e dov'è. Forse nel cassetto di uno che neanche lo sa di aver scritto il capolavoro del ventunesimo secolo. Uno che probabilmente si perderà il manoscritto durante qualche trasloco e solo il vento sfoglierà le sue pagine.”
Si sentì ridicolo e cambiò pensiero.
“Basta, rischio di diventare romantico, come i libri che piacciono a me. Se qualcuno ancora ne scrivesse.”

A lui piacevano di più le macchine da scrivere, ma mica puoi fare l'editore del ventunesimo secolo senza avere almeno un computer. Perciò carezzò la vecchia macchina Remington che ormai faceva da soprammobile e si avvicinò alla tastiera di plastica grigia che stava davanti allo schermo.
Chiuse la porta deciso a non aprire a nessuno quel pomeriggio.
I due, quello del capolavoro e quello che voleva fare i soldi se n'erano andati dicendosi che gli editori non riconoscerebbero un buon libro neanche se dalle pagine uscisse una mano a strattonarli.
Passò quasi un'ora a ricontrollare i conti e dividere le poche fatture per i clienti dalle molte dei fornitori da pagare, e nel frattempo giocherellava con la calcolatrice cercando di illudersi che fosse guasta, visto che stampava solo numeri rossi.

Fuori si stava facendo buio quando suonarono alla porta.
Era deciso a non aprire, però si alzò a sbirciare da dietro la tenda.
Un tizio anonimo, vestito come suo padre quando andava al lavoro, aspettava fissando il citofono.
Controllò di aver premuto il campanello giusto, poi per sicurezza lesse tutti i nominativi. Quindi suonò ancora. Ma lui non aprì. Bastavano falliti per quel giorno.
L'uomo guardò la busta gialla imbottita che teneva in mano, la soppesò, poi la rimise nella borsa di pelle fuori moda e un po' sformata, come quelle dei vecchi avvocati che non hanno fatto carriera.
Per l'ultima volta guardò quel portone che non si era aperto e pensò che forse sarebbe stato meglio lasciar perdere con quelle stupidaggini per le quali stava anche trascurando il lavoro.
Il giovane editore sedette di nuovo davanti al computer, cliccando sulle carte del solitario.
Non riuscì a vedere l'uomo mentre se ne tornava alla sua auto, saliva, metteva in moto e si allontanava piano, dopo aver buttato sul sedile posteriore la vecchia borsa che conteneva il capolavoro del ventunesimo secolo.

Francesco Pomponio     

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