venerdì 30 dicembre 2011

Sembra facile...

Quando una cosa si legge senza fatica, una grande fatica è stata fatta per scriverla.

Enrique Jardiel Poncela

Dove si trovano le storie

Gli scrittori sono come le gazze la­dre; accumulano innumerevoli oggettini, senza pensare che possano essere utili finché all'improvviso non lo diven­tano. Quando avete capito in che dire­zione va una storia, troverete le cose che servono, a cui non avevate pensato.

La gente desidera credere che le mie storie siano vere, che non sarei mai in grado di scrivere niente che non mi sia realmente accaduto.

A volte incontro lettori convinti che i miei libri contengano la storia della loro vita, anche se non li avevo mai visti pri­ma. Credono che sia capace di leggere nella loro mente.
La gente ama l'illusio­ne.
Quant'è vera l'osservazione di Oscar Wilde: «L'illusione è il primo di tutti i piaceri.»

MARGARET ATWOOD
scrittrice canadese

martedì 13 dicembre 2011

Campa cavallo...

Un grande editore riceve una telefonata da una scrittrice che gli chiede che fine abbia fatto un manoscritto da lei spedito mesi prima.
«Era un romanzo storico?» chiede l'editore.
«No» risponde la scrittrice. «Almeno non quando gliel'ho spedito.»

lunedì 12 dicembre 2011

Indovinate chi era?

Ebbe un'infanzia infelice e scarsa istruzione. La sua ambizione di diven­tare pittore fu aspramente avversata dal padre. Sebbene fosse un autodi­datta, scrisse un libro che, nel suo Paese, fu venduto quasi come la Bibbia. Gli ostacoli non lo scoraggiavano. La gente gli diceva : « Non puoi fare una cosa simile », ma lui superava una difficoltà dopo l'altra. Attribuiva un enorme valore alla salute dei giovani ed era conosciuto in tutto il mondo come un oratore dinamico. Uno dei suoi più intimi collaboratori disse di lui : « Fa grandi cose per il suo gran cuore, la sua forza di volontà e la sua bontà d'animo. »
Il nome di quest'uomo era Adolf Hitler.

Questa descrizione è usata da Kenneth S. Keyes Jr. nel libro How to Develop Your Thinking Ability (Come sviluppare la vostra capacità di pensiero) per dimostrare come sia facile tracciare un falso ritratto servendosi di fatti che rispondono a verità.

giovedì 8 dicembre 2011

La lentezza


In un certo senso, i «vecchi tempi», per quanto brutti, erano meno difficili di adesso. Dato che c'erano stretti rapporti con le cose che si facevano, la gente ne capiva il senso: si piantavano le patate, che si davano da mangiare ai nostri figli, che crescevano sotto i nostri occhi.
Oggi invece lavoriamo in modo sempre più astratto.
Cos'ha a che fare infatti con la vita reale lo star seduti di fronte a un computer?
Anch'io sono colpevole come chiunque altro.
Quando sono in fila con altra gente, mi spazientisco. Prima di cominciare a leggere un racconto su una rivista, controllo quanto è lungo.
Continuo a far fretta ai miei figli. Perché? Cosa cambia se perdono un po' di tempo?
Forse sarebbe utile chiederci ogni tanto se è proprio necessario andare sempre tanto di fretta. E riscoprire i ritmi giusti tornando a fare da noi alcune cose. Per esempio, scrivendo una lettera invece di telefonare.
Sarò sincera: non riesco più a guardare il pericolo implicito in questo mio stile di vita senza tentare qualcosa per modificarlo.
Quindi, la prossima volta che entrerò in una drogheria, lascerò perdere i prodotti già pronti e mi limiterò a comprare soltanto una buona, vecchia tavoletta di cioccolato.
Che userò per fare con ogni cura e attenzione piccoli e morbidi biscotti scuri.
E quando li avrò tolti dal forno passerò i dieci minuti che ci vogliono perché si raffreddino a non fare altro che godermi il loro buon profumo.

(Elizabeth Berg)


martedì 6 dicembre 2011

Scrivere per i bambini.


Chi scrive per i bambini in tono condi­scendente spreca il suo tempo.
I bambini sono esigenti.
Sono i lettori più attenti, più curiosi, più sensibili, più svelti e più amabili che esistano al mondo.
Accettano, quasi senza discutere, qualunque cosa gli si presenti purché sia presentata con sincerità, coraggio e chiarezza.
Certi scrittori per bambini evitano di proposito d'usare parole che, a loro avviso, un bambino ignora.
Questo impoverisce la prosa e ho il sospetto che annoi il lettore.
I bambini sono pronti a tutto.
Amano le parole che stentano a capire, purché siano in un contesto che avvince la loro attenzione.

(E.B. White, umorista e scrittore)


domenica 4 dicembre 2011

Non mi piacciono i libri...


Non mi piacciono i libri con troppe parole in corsivo, troppe parentesi, tonde, quadre e graffe. Con i verbi messi in tempi diversi nella stessa frase, perché fa figo, con i personaggi che hanno i nomi in inglese per lo stesso motivo di prima.
E non mi piacciono i libri dove ogni poche pagine trovi citazioni di canzoni rock che il lettore potrebbe anche non conoscere e che piacciono solo all'autore e ai suoi amici, forse.
Non mi piacciono i libri con le frasi in maiuscolo. Se bisogna ricorrere ad artifici tipografici per farsi capire, vuol dire che nel testo c'è qualcosa che non va.
E non mi piacciono i libri di quelli che credono che il dialogo sia tutto e più parolacce ci sono più è moderno. Dove non sai mai chi dice cosa e ti tocca tornare indietro e contare le frasi per saperlo.
Ed evito i libri di quelli che invece credono che le descrizioni siano tutto, e ti propinano dieci pagine di seguito, senza una frase che faccia respirare il testo.
E odio quelli che scrivono i titoli dei capitoli con "uno", "due" eccetera. Come se i numeri fossero ormai fuori moda. O peggio quelli che danno il titolo al capitolo con la prima frase del capitolo stesso. Come per le arie nelle opere liriche.
Essere originali significa altro.
E infine evito quelli che credono di rivoluzionare una lingua che neanche conoscono bene.
E come disse Picasso: "Ci ho messo una vita per imparare a disegnare come un bambino."
Ma lui sapeva dipingere davvero.

Francesco

sabato 3 dicembre 2011

Quanto costa

Nessuno, in realtà, ha mai pagato il prezzo di un libro, ma solo il prezzo della stampa.

venerdì 2 dicembre 2011

La strada di casa.



Penso che certi uomini siano nati fuori del posto che gli spetta. Il caso li ha messi in un certo ambiente, ma essi hanno sempre nostalgia di una dimora che non conoscono.
Sono degli estranei nel loro paese natale, e i viali ombrosi o le strade popolose in cui hanno giocato da fanciulli rimangono soltanto un luogo di passaggio. Forse è questo senso di estraneità che spinge gli uomini in terre lontane alla ricerca di qualcosa di permanente nella quale possano mettere radici.
Talvolta un uomo capita in un luogo al quale sente di appartenere. E' quella la dimora che ha sempre cercato ed egli si stabilirà in uno scenario mai visto prima, tra uomini che non ha mai conosciuto, come se gli fossero familiari fin dalla nascita.
Lì finalmente trova riposo.

(W. Somerset Maugham, The moon and sixpence)

Un racconto in bianco e nero.


Questo è un racconto in bianco e nero, oppure virato sul seppia, come una vecchia pellicola piena di graffi o una fotografia davanti a un telo sdrucito che si finge paesaggio.
Ma sicuramente il cielo era azzurro anche allora, quando ragazzi ignoranti venivano spediti lontano, a combattere contro gente di cui non sapevano neanche la razza, se non che era diversa dalla loro.
Arrivavano i primi freddi e presto sarebbe toccato a lui.

I boschi avevano perso il rosso dell’autunno e uno spesso tappeto di foglie ricopriva il sentiero che percorreva quasi tutti i giorni per andare dalla sua ragazza.
Odorava di foglie marce il bosco quella sera, quando svoltando per la strada di casa vide ripartire la bicicletta dell’appuntato dei carabinieri. Sua madre stava sulla porta e fissava una busta gialla, senza saper leggere, ma sapendo che non erano buone notizie.
Luigi capì subito di che si trattava. A casa di quelli come lui i carabinieri andavano solo a portare carte del governo. Non certo a cercare delinquenti.
Ebbe voglia di tornarsene nel bosco, di addentrarsi nella macchia e perdersi per sempre.
Ma, come la neve che cade e sembra che l’inverno debba durare per sempre, anche i boschi finiscono.
E finiscono sulle strade. E sulle strade passa sempre qualcuno che ti conosce e va a raccontare in giro che ti ha visto. Luigi rifletté che se ognuno si facesse i fatti suoi non ci sarebbe altro problema al mondo che procurarsi da vivere. Che è già un bel problema da solo, senza doversene cercare altri.



Francesco Pomponio 

giovedì 1 dicembre 2011

Più chiaro di così...

Un giovane scrittore chiese una volta a Somerset Maugham: "Devo mettere più fuoco nelle mie storie?"
"No" Rispose secco Maugham. "Viceversa"

Forse ci sarebbe da riflettere su queste righe...




Ammetto, naturalmente, che le mie convinzioni sono in parte regolate dal fatto che sono vecchio e che tra una decina d'anni o pressappoco sarò morto.
Da giovane mi sarei certamente espresso in modo diverso.
Adesso la prospettiva della morte adombra tutto il resto.
Sono come un uomo imbarcato su una nave che sta per arrivare a destinazione. Salendo a bordo mi preoccupavo di avere una cabina con l'oblò, d'essere invitato alla tavola del comandante, di conoscere i passeggeri più interessanti e le signore più belle. Tutte queste considerazioni sono inutili adesso che sto per sbarcare.
Siccome non credo che la vita terrena possa dare soddisfazioni durevoli, il pensiero della morte non m'incute terrore. Ma il mondo che sto per lasciare mi sembra più bello che mai, specialmente nelle sue parti più remote: l'erba e gli alberi, i ruscelli e le colline, dove l'immagine dell'eternità è più chiaramente impressa che non nelle strade e nelle case.
Coloro che amo posso amarli ancora di più, giacché non ho nulla da chiedere loro fuorché l'amore.
La passione d'accumulare ricchezze o d'essere famoso e importante è ormai chiaramente troppo assurda perché io possa nutrirla.
Mi rendo conto di essere stato straordinariamente felice e provo un'infinita gratitudine per il mio creatore.
Sono profondamente e fermamente convinto che la vita sia un dono meraviglioso; che lo spirito che mi anima sia uno spirito d'amore e non di odio, di luce e non di tenebre.
Siccome credo che la vita sia concepita per il bene e non per il male, so anche che quando questi occhi non vedranno più e questa mente non penserà più e questa mano che ora scrive sarà inerte, troverò il bene anche nell'al di là.
Se poi non troverò nulla, rendo grazie per quel nulla; se sarà un'esistenza diversa rendo grazie anche per questa.

Malcom Muggeridge

Il mestiere di poeta...

Certa gente dovrebbe provare il lavoro vero. Prima di definirsi poeta.

martedì 29 novembre 2011

Un cattivo carattere.

Che bello potersi vantare di avere un cattivo, anzi pessimo, carattere.
"Ho un cattivo carattere!" Dice uno.
"Ah, anche io, anzi di più. Facciamo un club!"
Ecco, si incontrano e si fanno i complimenti per quanto sono odiati dal prossimo.
Certo, è vero che essere buoni ormai è fuori di moda, ma almeno un po' di educazione non ci dispiacerebbe.
E invece no.
Non puoi parlare con queste persone se non usi il turpiloquio, devi dire le parolacce, altrimenti non ti prendono neanche in considerazione. Io ritengo che probabilmente non ti capiscono proprio, abituati come sono a parlare con frasi fatte. E forse "fatte" è il termine che più si adatta.
Ma questo sarebbe il minimo, in fondo è solo apparenza e quella, a parte che può non essere apprezzata da tutti, fa male solo a chi se ne veste.
Ma il cattivo carattere è una brutta cosa perché peggiora la vita e più la vita peggiora più il carattere si incattivisce.
Ma cos'è un cattivo carattere?
Non è essere schietti, anche se a volte si esagera. E' il cercare di raggirare le persone per averne un tornaconto. E' parlare male delle persone quando non sono presenti. E oggi con le nuove tecnologie si fa presto a essere smascherati.
Voi scrivete sulla vostra bacheca facebook delle brutte cose su una persona e poi dimenticate di "chiudere" l'accesso a cani e porci. E la persona oggetto dei vostri gentili epiteti legge il tutto.
Se è più intelligente di voi probabilmente neanche vi risponde e voi non saprete mai che ha letto.
La stessa cosa capita quando si sparla di qualcuno, con la tradizionale voce.
La persona viene a saperlo quasi sempre, e anche se non ha voglia di litigare con voi, se lo segna. E aspetta il momento buono per farvela scontare, quando voi ve ne sarete allegramente dimenticati.
Tempo fa mi è successo un fatto che vale la pena di raccontare, senza citare nomi e persone per non far loro pubblicità.
Una persona mi prese a male parole perché avevo espresso la mia opinione, sulla quale non era d'accordo.
Poi, come se non bastasse, si sfogò sul suo blog, mandando messaggi "trasversali" in puro stile da piccolo mafioso.
L'ho lasciata perdere perché non vale quasi mai la pena discutere con gli attaccabrighe.
Però, da curioso che sono, mi sono andato a leggere un po' di notizie e ho scoperto che la persona in questione è disoccupata, e capisco anche perché non trova lavoro. Ai datori di lavoro importa poco di coloro che fanno vanto di avere un pessimo carattere. E quello che si scrive sulla Rete, poi è difficile da cancellare. E una persona rompiscatole e che si vanta di esserlo è quello che qualunque azienda evita come la peste.
Ma tornando a noi, questo aneddoto, mostra come i comportamenti scorretti provocano conseguenze a breve e a lungo termine. E i risultati si vedono quando si va a fare un bilancio della propria vita.
Salvo disgrazie non evitabili e non prevedibili, il resto è solo merito o colpa nostra.
Anni fa stavo organizzando un convegno per una grossa azienda e il cliente propose di chiamare un comico per una serata con tutti i dipendenti. Qualcuno propose il nome di un comico di allora, ma una persona presente disse, senza mezzi termini: "Quello no! Quello è uno stronzo, non rispetta gli impegni."
Non volemmo sapere altro. Probabilmente quella persona era stata oggetto di qualche comportamento scorretto da parte del comico in questione, visto che lavoravano nello stesso ambiente dello spettacolo.
Il comico attualmente vivacchia e tira avanti a fatica, e non saprà mai che ha perso un lavoro che gli sarebbe stato pagato, vent'anni fa, quasi 60 milioni di vecchie lire.

La persona della quale parlavo prima invece, avevo pensato di segnalarla a un'azienda che avrebbe bisogno proprio di uno con le sue competenze. Ma non lo farò. Eppure sarebbe stata un'occasione d'oro.
Ma nella vita conta sì la bravura, ma molto di più il saper vivere e lavorare con gli altri.
Guardate cosa succede quando un negoziante vi tratta male.
Anche se ha quello che vi serve, andate ad acquistarlo da un'altra parte.
E quel negozio dopo un po' chiude. Perché non tratta male solo voi.

E' una regola semplice, ma proprio per questo molti la trascurano. E si complicano e si rovinano la vita.
E poi danno la colpa agli altri.


domenica 27 novembre 2011

Frammento


“Desidera?” Gridò il giovanotto in mutande, con la faccia scocciata di chi è stato disturbato mentre era affaccendato in cose migliori.
“Volevo chiederle se può abbassare la musica, c'è una persona che sta per morire.”
“Ah, mi dispiace, non lo sapevo, e chi sarebbe?”
“Saresti tu, se non abbassi quel volume.” Disse Zeb, poi fece scrocchiare le nocche con aria indifferente.
L'altro non trovò nulla da rispondere e comunque non avrebbe fatto in tempo perché Zeb si era già allontanato giù per le scale. Chiuse la porta e regolò il suo nuovo impianto stereo a un volume più umano, rammaricandosi di aver speso tutti quei soldi e non poterlo ascoltare come piaceva a lui.

Francesco Pomponio

martedì 22 novembre 2011

Sulla scrittura

Nella scrittura devono esserci molti significati, ma il lettore deve essere in grado di fermarsi al primo.
Questo in fondo è l'ideale classico; basta pensare a Virgilio o alle favole.
Mi sono sempre piaciuti quei libri che in apparenza sono semplici, ma su cui si può riflettere per una vita, come i Vangeli o anche Pinocchio.

Piero Citati

Scrivere non è difficile...

Scrivere non è difficile. Basta prendere carta e penna e scrivere così, come vi capita.
Scrivere è facile... è il come vi capita il difficile.

Leo Rosten

domenica 20 novembre 2011

Con tutto quello che succede...

Sabina Guzzanti e Fiorello litigano per chi fa più ridere.
Stiano tranquilli, fanno ridere tutti e due.

domenica 13 novembre 2011


Il tempo non è nostro
di Francesco Pomponio

“Il tempo non è nostro, noi al massimo possiamo limitarci ad utilizzarlo o spesso a sprecarlo.”
Lei lo guardò con aria interrogativa, come faceva sempre quando lui se ne usciva con queste sue perle di saggezza.
“Anzi neanche lo sprechiamo, perché sprecarlo è un concetto nostro del quale il tempo si infischia, noi ci passiamo solo attraverso. E non è il tempo che finisce, ma noi.”
“Non sei allegro oggi.” Disse Martina.
“Non vedo come potrei esserlo visto che mi hai detto che non vuoi più saperne di me.”
“Non ho detto che non voglio più saperne, ho detto che ho bisogno di tempo per vedere le cose in un modo diverso.”
Andrea la guardò e si rese conto che le persone sembrano più belle quando stai per perderle.
“Ma è quello che dicevo. Tu pensi di avere tempo e invece non abbiamo neanche i prossimi cinque minuti. Non abbiamo niente.” Nella sua voce echeggiò una piccola nota di disperazione che ovviamente Martina non raccolse, persa com'era a rimuginare le offese che riteneva di aver ricevuto.
Era una di quelle giornate roventi che provocano i soliti titoli sui giornali nei quali si consiglia di non uscire con il caldo, di mangiare frutta e bere molto.
Uno di quei giorni nei quali non si immagina la fine di un amore.
La si può accettare d'inverno, quando fa freddo, oppure nella pioggia d'autunno che è già triste di per sé. Ma non d'estate, quando si vorrebbe andare al mare con la moto, sentendo lei stretta dietro e cercando di avvertire la forma del suo seno attraverso il giubbotto pesante che, da buon motociclista saggio, si porta anche se fa caldo.
E si vorrebbe stare per ore a guardarla mentre si abbronza, e spalmarle la crema sulla schiena, deviando ogni tanto nelle vicinanze, prima che lei ci rimproveri per scherzo.
Questo si dovrebbe fare nelle giornate d'estate, quando il lavoro finisce, la scuola chiude e la mente scioglie i pensieri che per tutto l'anno sono stati chiusi nella gabbia delle convenzioni.
Oppure passeggiare per le strade infuocate e deserte di visi noti. Piene solo di gente che passa, fotografa tutto e se ne torna alla sua casa lontana, dove si mangia diverso da noi e non si capirebbe quello che dicono.
E andarsene soli in quella confusione, tenendosi la mano sudata e approfittando della poca ombra per baciarsi rapidamente. Come il volo di un passero alle prime armi.
Ma lei era irremovibile, e voleva prendersi il suo tempo, credendo di avere tutto quello che voleva.
Andrea non riusciva a trovare altre parole per convincerla, e forse neanche voleva trovarle più. E il tempo sgocciolava verso la fine, come l'acqua dei condizionatori che cadeva dai balconi sulle teste dei passanti.
Avevano tutti e due il cuore vuoto, forse per motivi diversi, oppure il motivo era lo stesso, ma non lo sapevano.
Camminarono ancora un po', e alla fine Martina decise che per il momento non c'era più nulla da dirsi. Era troppo amareggiata e neanche si chiedeva chi avesse ragione o se fosse lei esagerata a prenderla così.
Lo salutò con una carezza indefinibile e se ne andò, senza altre parole.
Lui la guardò allontanarsi senza riuscire a muovere un altro passo, finché lei non svoltò dietro l'angolo di un vicolo.
Il caldo faceva tremare l'aria e non c'erano nuvole nel cielo lattiginoso.
“E' piena di difetti, ed è pure un po' stronza, ma allora perché sto così, adesso che se ne va?” Si chiese Andrea.
“Forse perché sei stronzo anche tu.” Disse la sua coscienza.
“E tu sei la coscienza di uno stronzo, allora.”
“E' quello che dicevo io!” Rispose quella.
Il sole picchiava sulla sua testa e decise che sarebbe stato meglio ripararsi all'ombra, per quello che poteva servire stare all'ombra dentro un forno. Ma forse avrebbe smesso di farsi le domande e anche le risposte.
Martina, con gli occhi lucidi, camminava veloce verso la fermata dell'autobus. I tacchi affondavano nell'asfalto dei marciapiedi e il caldo saliva sotto la sua gonna leggera.
“Fra qualche giorno lo chiamo, ma adesso no.” Pensava.
Ma bastano pochi istanti per rovinare tutti i nostri progetti, altro che qualche giorno.
E forse è vero che il tempo non è di nostra proprietà e se non lo usiamo non possiamo metterlo da parte per dopo.
Come l'acqua del fiume nel quale facevano il bagno, quando ancora si volevano bene.

Francesco Pomponio

Roma, 14 luglio 2010

giovedì 10 novembre 2011

L'hobby della lettura

Io sono contro tutti gli hobby.
Sono sempre stato contro fin da quando mi sono accorto che niente di quello che facevo veniva mai considerato un hobby.
Per tutta la vita ho dovuto rispondere a questionari riguardanti i miei hobby.
Ogni volta avrei voluto scrivere "la lettura", ma leggere non è un hobby. Se uno si mette a collezionare libri, questo sì è un hobby.
Ma leggere libri non è un hobby.
Se si osserva una farfalla in un prato non è un hobby. Se però le infilzate il cuore con uno spillo, quello sì è un hobby.

(Richard Cohen)     

Tre copie di tutto


Finalmente è finita, hai scritto la parola più importante di tutte.
Hai prima respirato a fondo, hai battuto sul tasto enter, invio, return, insomma quello per andare a capo.
Hai esitato un momento, poi hai scritto FINE. Stando attento a non sbagliare i tasti almeno per questa parola, perché pensi che porti male. Perciò hai cercato con attenzione le lettere sulla tastiera.
Ti è rimasto il dubbio se dopo la parola Fine ci vada il punto, ma alla fine hai deciso di no, tanto si capisce lo stesso che il libro è finito.
Ti appoggi allo schienale, poi decidi che ci vuole un caffè per festeggiare, anche se sono le due di notte. Tanto lo sai che dormirai benissimo stanotte.
E' vero che domattina, cioè fra poco, dovrai alzarti alle cinque, perché fai un lavoro vero, che ti serve per vivere.
Lo so che adesso stai pensando che anche scrivere ti serve per vivere, ma è diverso. Comunque ormai basta con la filosofia da due soldi, il libro è finito. Hai rifatto tre volte il finale e forse lo rifarai chissà quante altre, ma per ora va bene così.
Fai tre copie del file su tre chiavette diverse, poi per maggior sicurezza lo registri anche su un CD.
Domani ne farai pure una copia stampata, perché la carta non si smagnetizza, non si cancella e di sicuro non te la rubano. Magari qualcuno lo facesse, potresti dire che il tuo libro va a ruba. E invece quasi di sicuro non accadrà mai.
Perché nella vita non basta essere bravi.
Una volta che hai fatto tutto quello che dovevi fare, meglio che potevi, se non c'è anche un colpo di fortuna... beh, di solito dici in un altro modo, ma il concetto è chiaro.
E tu di colpi ne hai avuti molti nella tua vita, ma di fortuna te ne ricordi davvero pochi.

Ma a questo ci penseremo domani, stasera, mentre sorseggi il caffè, goditi la soddisfazione che viene da un lavoro ben fatto.
Anche se a chiamarlo lavoro ti viene da ridere, e ripensi a quel tizio che una volta, alla presentazione di un suo libro, dove capitasti per errore fra parenti e amici annoiati, ti venne vicino e dopo essersi presentato ti vendette una copia del suo stitico libricino pieno di poesie senza metrica, senza rime, senza passione e senza cuore.
Ti fece anche l'autografo e la dedica, anche se non la volevi. Poi ti costrinse a bere un bicchiere d'aranciata senza più le bollicine e una fetta di crostata della nonna.
Tutti ti guardavano perché eri l'unico che non conoscevano.
Alla fine ti salutò lasciandoti il suo biglietto da visita. Era in caratteri tondi, come quelli delle prime comunioni o dei matrimoni dei poveri.
E sotto il nome la parola “Poeta”.
“E che lavoro è fare il poeta?” Pensasti, ma non dicesti niente, perché tutti i parenti ti stavano fissando. Sfoderasti il sorriso più ipocrita che avevi e che di solito riservavi al capo, poi lasciasti che ti stringesse la mano senza metterci niente del tuo.
Al primo bagno di quel centro commerciale di periferia ti lavasti tre volte le mani, poi lasciasti il libro di poesie sul lavandino, per qualche sprovveduto che forse l'avrebbe apprezzato più di te.
Mentre uscivi non ti accorgesti che il libro cadeva nel cestino dei tovaglioli usati.

Chissà perché ogni volta che scrivi qualcosa ti torna in mente quell'episodio. Forse per ricordarti di non credere mai di essere importante. Primo perché non lo sei, secondo perché non lo sono neanche gli altri. Neanche quelli che pensano che il mondo finirà con loro o che sia importante quella misera polemica con il critico del giornale del mattino. Oppure quelli che litigano con il correttore di bozze o con l'impaginatore perché a pagina 87 la parola destriero è stata sostituita con cavallo.

Tu non sarai mai così, pensi. E' vero che lo sai di essere bravo, ma bravi come te chissà quanti ce ne saranno. Perciò cerchi sempre di tenere a mente che non sono importanti le cose che scrivi, non è importante l'editore, né i critici che scrivono quello che vuole lui.
Tu lo sai, l'hai imparato da tempo, che la gente ti vuole bene solo fino a quando pensa di poter avere bisogno di te.
Lo sai bene e più ti dicono che sei bravo, intelligente e unico, più ti preoccupi. E infatti il giorno che capiscono che tu non vuoi, o più spesso proprio non puoi, fare qualcosa per il libro che hanno nel cassetto, improvvisamente diradano le telefonate (meglio, così hai più tempo per scrivere), e si allontanano con le loro lingue penzoloni, in cerca di altri culi da leccare.
Come vedi nei blog tenuti da giornalisti o scrittori che hanno avuto un bagliore di successo.
Se li segui per un po' di tempo vedrai il peggio dell'essere umano.
Nella speranza di essere notati si affollano in quelle poche righe, e se la saliva se non fosse solo virtuale, ti offuscherebbe lo schermo e colerebbe sui tasti.
E si impegnano eh! Mica lo fanno in maniera rozza come potresti fare tu che non sei pratico. No, loro supportano le loro slinguazzate con parole di raffinata cultura, fanno l'analisi delle opere del padrone di casa e ci trovano cose bellissime che quello non solo non ha mai pensato, ma che neanche volendo sarebbe stato in grado di metterci.
Ma gli fa piacere sentirsi definire il genio che non è e che mai potrà essere.
Lui è contento così e la sua corte di adoratori è soddisfatta di questo.
E tu che hai osato far notare che forse c'era qualcosa che non andava, sei stato cacciato in malo modo, e se non ti hanno preso a calci reali è stato solo per impossibilità, ma di quelli virtuali ne hai pieno il sedere.

Ma per stasera va bene così.
Probabilmente il tuo libro non lo pubblicherà nessuno, ma allora, ammesso che valga qualcosa, e tu sei sicuro di sì, prima di morire lo distruggerai, eliminerai ogni copia e ogni stampa. Perché di essere pubblicato postumo non hai alcun interesse e se non ti apprezzano adesso, che ti ignorino anche dopo.
Che rimangano con i loro scrittori d'allevamento. Quelli tutti uguali e pronti agli ordini del padrone, di qualunque colore esso sia.
Perché a chi cerca mani da leccare quello che serve è soltanto un padrone.
Come il più scemo dei cani, che se fosse davvero intelligente quella mano la morderebbe.

Adesso spegni il computer, lo rimetti nella sua custodia e te ne vai a letto, perché domani hai da lavorare.
E per fortuna il tuo lavoro vero ti piace.
Fuori fa freddo, è buio e solo una macchina ogni tanto riporta a casa gente insonnolita.
Ti tiri le coperte sulla testa, aggiusti il cuscino e ti addormenti, sognando la tua prossima storia, che forse nessuno leggerà mai.

Francesco Pomponio

Il piacere dei libri (Francesco Petrarca)

Non riesco a saziarmi di libri. E sì che ne posseggo un numero probabilmente superiore al necessario; ma succede anche coi libri come con le altre cose: la fortuna nel cercarli è sprone  a una maggiore avidità di possederne.
Anzi coi libri si verifica un fatto singolarissimo: l'oro, l'argento, i gioielli, la ricca veste, il palazzo di marmo, il bel podere, i dipinti, il destriero dall'elegante bardatura, e le altre cose del genere, recano con sé un godimento inerte e superficiale; i libri ci danno un diletto che va in profondità, discorrono con noi, ci consigliano e si legano a noi con una sorta di familiarità attiva e penetrante.

(Da una lettera di Francesco Petrarca a Giovanni Anchiseo)     

Strana cosa un libro

E' come quando si conosce una persona.
A volte non lo sai perché ti piace, o meglio lo sai benissimo: ti piace perché ti assomiglia.
Ed è come quando incontriamo qualcuno per la prima volta; stiamo lì a guardare che scarpe porta, che giacca indossa o come ha i capelli.
Ne sfogliamo la copertina.
Però se andiamo oltre le apparenze, se cominciamo a sfogliare le pagine potremmo accorgerci che ci sono più cose, e diverse da come le avevamo immaginate.
Un libro si legge come se fosse una persona che ci racconta una storia. E in fondo quello è, anche se chi l'ha scritta non c'è più da tempo.
E allora abbandoniamoci al racconto, entriamo in un mondo che non era nostro ma che alla fine sarà anche parte di noi, e se il libro sarà ben scritto ci dimenticheremo anche di mangiare, non vorremo andare a dormire per sapere quello che succede dopo, e con dispiacere vedremo assottigliarsi le pagine che rimangono.
Non capita spesso di trovare libri così e si potrebbe pensare che non ce ne siano più. Ma stiamo tranquilli, ce ne sono e ce ne saranno ancora, anche se a volte pochi li riconoscono.
Perché l'autore è sconosciuto, perché gli editori sono ciechi, perché i lettori sono distratti e leggono solo le cose che consiglia la pubblicità, perché non esiste il libro perfetto.
Ma neanche le persone lo sono e spesso ci piacciono proprio per quello.

Ma noi siamo lettori come si deve e non ci facciamo fuorviare da consigli interessati.
Ci mettiamo comodi davanti alla finestra, con il libro che abbiamo scelto, e ci addentriamo in un mondo fatto di tanti piccoli segni neri che messi insieme creano persone, storie, luoghi e sensazioni.
E alla fine, come per le note di una sinfonia, non sono più semplici pallini neri su un foglio, ma qualcosa che prima non esisteva e che adesso fa parte di noi.
Noi che leggiamo e che dobbiamo solo goderci la storia, ridere, commuoverci, e pensare. E ricordarci che il libro è un amico che non cambia. Se ne sta lì, zitto zitto finché non abbiamo ancora bisogno di lui.
Siamo noi a cambiare, perché è il nostro destino, e a volte ci allontaniamo da questi nostri amici silenziosi, ma anche dopo anni finiamo prima o poi per ritornare, un po' più ricchi e un po' più poveri.
Ricordando sempre che: “Il vero povero è colui che in un giorno di pioggia sta chiuso in casa e non sa leggere.”

Francesco

Primavera nell'aria


Cosa fotte alle rondini
Di noi che passeggiamo
Guardandole volare
E piano piano andiamo

Lor cercano moschini
Pei lor figli caconi
Che sporcano dai nidi
Le tende ed i balconi.

Mica la fanno dentro
Loro sono puliti
E spurgano di fuori
Su teste e su vestiti.

E le nostre ragazze
Distratte dal timore
Di sporcarsi la giacca
Non pensan più all’amore.

Tanta pena sprecata
E tanto tempo perso
Per colpa di un uccello
Che va nel cielo terso.

Però è la primavera
E se non piace è un guaio
Ci tocca camminare
In questo letamaio.

Ma se domani ancora
Risentirò quei gridi
Mi alzo di buon’ora
a fracassargli i nidi.

(Francesco Pomponio)
       

La lavagna di Amerigo (una recensione)


Questa è una recensione al mio libro, assolutamente non sollecitata, non conosco neanche chi l'ha scritta.
Però ogni tanto fatemi fare un po' di autopromozione :-)

"La lavagna di Amerigo di Francesco Pomponio è una storia che si svolge a metà degli anni ottanta, quando, come scrive l’autore Internet non esisteva, le donne poliziotto erano una rarità e i cellulari non li aveva nessuno.
Alfredo è un meccanico quarantenne, sposato con Lisa, padre di Carlo, un adolescente in piena crisi adolescenziale. Un uomo normale con una famiglia ordinaria, se non fosse che ognuno di noi è unico e speciale nella propria individualità. Infatti Alfredo non ha grilli per la testa che tuttavia è piena di concetti, storie e parole centellinate nel tempo attraverso le storie che legge con regolarità. Alfredo ama i libri, ama il rumore della carta, la consistenza dei tomi, li ama al punto di affidare a loro i ricordi più belli, inserendoli nelle pagine sotto forma di vecchi biglietti del bus.
Rossella è una ragazza bionda, bella, sensibile, di quelle che si complicano la vita per malinconia. È appena uscita da una storia complessa con un uomo che vuole essere più un padrone che un compagno. Lo lascia, perché Rossella è coraggiosa, è una delle prime donne in Italia che partecipa a un concorso in Polizia, lo vince, affronta il corso di preparazione, i pregiudizi di un mondo maschile, che non rispetta le donne soprattutto se portano una divisa.
Le vite di Alfredo e Rossella si sfiorano più volte, intessendo legami come trine di ragno, delicate, fragili sebbene finalizzate a qualcosa che neanche loro inizialmente avvertono, trasportati come sono dalla quotidianità delle loro vite parallele. Sarà il caso a farli incontrare, il dolore a legarli, la fiducia a vincere sulla morte.
La lavagna di Amerigo si muove su un sottobosco di filosofia urbana, che ha la consistenza degli scambi di battute veloci e intelligenti di Alfredo con il barista Amerigo, che sulla lavagna del bar annota le massime del giorno. Il dialogo tende a prevalere sulle azioni, le descrizioni e i ricordi scandiscono gli stati d’animo dei protagonisti, mai banali nella loro normalità.
La lavagna di Amerigo è un libro che ognuno di noi dovrebbe leggere per comprendere che non esistono tragitti definiti nella nostra vita e che anche se il viaggio appare finito bisogna avere il coraggio di andare avanti anche se sconosciamo la meta finale."

Ciao

Se a qualcuno il libro interessa puà richiedermelo in formato PDF con licenza Creative Commons.
Mi farà piacere inviarglielo oppure può scaricarlo dal blog Starbooks.it, nella sezione Libreria

Francesco Pomponio
email francesco.pomponio@gmail.com

Il capolavoro del ventunesimo secolo


“A me non interessa pubblicare, io voglio scrivere un capolavoro.” Disse il ragazzo con i capelli legati a coda di cavallo e sporchi allo stesso modo.
“Tu sei scemo, scrivilo prima e poi ne parliamo. Vedrai se non arriva pure quello che vuole fare i soldi scrivendo.” Disse il giovane facendosi strada per entrare.
“Io! Io voglio fare i soldi scrivendo!” Rispose un altro, scendendo dal suo scooter comprato a rate, con l'avallo di papà.
“Va bene, sei scemo anche tu, ogni tanto ne capitano due insieme, d'altronde siete talmente numerosi.”
Il giovane editore infilò la chiave del suo, per ora, modesto ufficio e andò alla scrivania. Ma prima chiuse la porta, senza sbattere perché era un giovane ben educato, come si diceva nei secoli precedenti.
Tolse un po' di manoscritti dalla sedia che aveva rubato dalla cucina di sua madre e accese il computer.
Si guardò intorno cercando dove appoggiare i fascicoli mal rilegati che teneva in mano, poi li mise sopra la vecchia stufa che stava lì solo per bellezza, visto che era un vecchio rudere che non usava mai.
“Però potrei cominciare.” Pensò soppesando i manoscritti.

“La colpa è mia che vado cercando il capolavoro, come se ne nascesse uno a settimana. Ma la gente non vuole più faticare, vogliono bruciare le tappe senza neanche percorrere la strada. Non ne posso più di copie di copie. Libri che sembrano brutti riassunti di libri che già erano brutti nell'originale.
Ma come si fa? Probabilmente prima o poi mi toccherà cambiare lavoro perché il libro che sfonda le classifiche, che mi fa fare un sacco di soldi e fa diventare grande la mia casa editrice, chissà se esiste e dov'è. Forse nel cassetto di uno che neanche lo sa di aver scritto il capolavoro del ventunesimo secolo. Uno che probabilmente si perderà il manoscritto durante qualche trasloco e solo il vento sfoglierà le sue pagine.”
Si sentì ridicolo e cambiò pensiero.
“Basta, rischio di diventare romantico, come i libri che piacciono a me. Se qualcuno ancora ne scrivesse.”

A lui piacevano di più le macchine da scrivere, ma mica puoi fare l'editore del ventunesimo secolo senza avere almeno un computer. Perciò carezzò la vecchia macchina Remington che ormai faceva da soprammobile e si avvicinò alla tastiera di plastica grigia che stava davanti allo schermo.
Chiuse la porta deciso a non aprire a nessuno quel pomeriggio.
I due, quello del capolavoro e quello che voleva fare i soldi se n'erano andati dicendosi che gli editori non riconoscerebbero un buon libro neanche se dalle pagine uscisse una mano a strattonarli.
Passò quasi un'ora a ricontrollare i conti e dividere le poche fatture per i clienti dalle molte dei fornitori da pagare, e nel frattempo giocherellava con la calcolatrice cercando di illudersi che fosse guasta, visto che stampava solo numeri rossi.

Fuori si stava facendo buio quando suonarono alla porta.
Era deciso a non aprire, però si alzò a sbirciare da dietro la tenda.
Un tizio anonimo, vestito come suo padre quando andava al lavoro, aspettava fissando il citofono.
Controllò di aver premuto il campanello giusto, poi per sicurezza lesse tutti i nominativi. Quindi suonò ancora. Ma lui non aprì. Bastavano falliti per quel giorno.
L'uomo guardò la busta gialla imbottita che teneva in mano, la soppesò, poi la rimise nella borsa di pelle fuori moda e un po' sformata, come quelle dei vecchi avvocati che non hanno fatto carriera.
Per l'ultima volta guardò quel portone che non si era aperto e pensò che forse sarebbe stato meglio lasciar perdere con quelle stupidaggini per le quali stava anche trascurando il lavoro.
Il giovane editore sedette di nuovo davanti al computer, cliccando sulle carte del solitario.
Non riuscì a vedere l'uomo mentre se ne tornava alla sua auto, saliva, metteva in moto e si allontanava piano, dopo aver buttato sul sedile posteriore la vecchia borsa che conteneva il capolavoro del ventunesimo secolo.

Francesco Pomponio     

Orsobianco e Netturbino


Deve esistere il libro per ragazzi?
No.
Quello per bambini, con gli orsetti e le paperelle, è ammissibile, ma un ragazzo di 12-13 anni che decide in piena autonomia di provare l'avventura di leggere, non può trovare certe idiozie sulla sua strada, già così accidentata da libercoli scritti e stampati solo per venderli alle zie che non sanno cosa regalare per natale.
Care zie, ma dategli i soldi, no? Almeno si comprano quello che gli pare.
Non “Le avventure di Orsobianco e Netturbino”.

Perché i veri libri che i ragazzi dovrebbero leggere non furono scritti per i ragazzi.
L'isola del tesoro, I tre moschettieri, Oliver Twist, Piccole Donne, Cime Tempestose, non erano libri per ragazzi.
Il piccolo Principe non è un libro per ragazzi.
E' vero che ormai è diventato quasi odioso per come è stato saccheggiato da tutti i “formatori” di aziende. Le quali invece di scegliersi i dipendenti come si deve, sperano di farli diventare buoni sottoponendoli a cumuli di scemenze e banalità pagate a caro prezzo a gente che ogni giorno è la conferma vivente del detto: “Non sai fare niente? Mettiti a fare il consulente.”

Ma tornando ai ragazzi, fategli leggere quello che vogliono, e se si scontreranno con Ulisse di Joyce, tanto meglio. Può darsi che gli piaccia oppure che lo mettano da parte per gli anni a venire, ma almeno sapranno che un giorno è esistito un tizio che ha impiegato più di mille pagine per descrivere una giornata. E forse qualcosa da dire doveva averlo.
Oppure sbatteranno contro Proust e si leggeranno tutti i volumi, senza annoiarsi e passando alla storia come quei pochi che hanno davvero letto la “Recherche”.

E che si fottano Orsobianco e Netturbino.
Insieme a tutti quei vampiri, che invece di succhiare il sangue a chi di dovere, succhiano soldi alle zie.      

Il bonifico del pollo


Caro "agente letterario",
Questa lettera è indirizzata proprio a te, e mi dispiace se qualche agente letterario vero si dispiacerà, ma un po' è anche colpa sua. La stessa colpa che hanno gli editori veri per la diffusione di quelli a pagamento.
Avrei da chiederti tante cose, ma non preoccuparti, non ti chiederò di fare qualcosa per me, non ti manderò manoscritti in lettura. Però consentimi alcune domande, forse ingenue, forse da fesso.
Dunque, ti ho spedito una lettera, di quelle fatte con quello strano materiale che fra poco non dovrebbe essere più usato, a sentire quelli che straparlano di ebook, epub, eccetera.
Ti ho spedito una lettera di carta perché così la tua segretaria, o assistente, come si fa chiamare oggi, avrebbe potuto risparmiarsi il disturbo di stamparla e poi perché una lettera non si cancella con un clic del mouse perché è ora di andare a pranzo.
Non ti ho inviato un manoscritto perché prima di spedire qualcosa a chiunque, è mia abitudine avvertirlo. E anche perché la raccolta differenziata della carta spesso non funziona, e sapere il mio libro fra bucce di mele e patate mi sarebbe dispiaciuto.
Ma basta divagare, ecco la domanda.
Che fa un agente letterario in Italia? Ancora non sono riuscito a capirlo.
Pensa che io credevo che un agente letterario fosse uno che fa ciò che lo scrittore non è detto che sappia fare. Cioè trattare con gli editori per fare in modo che il suddetto scrittore guadagni un sacco di soldi e quindi prendersi la sua giusta percentuale sugli incassi.
Pensa quanto sono scemo!
Ho scritto una volta a una famosa agenzia letteraria proponendo proprio questo. Non avevo capito niente.
“Date un'occhiata al mio libro e se vi piacerà e riterrete che io possa essere una promettente fonte di guadagno, proponete il libro agli editori che conoscete, o almeno dovreste conoscere. Poi vi prenderete la vostra percentuale sugli incassi.” Questo era più o meno quello che scrivevo.
Ma le cose non funzionano come credevo io.
Scusami se faccio ancora il paragone con gli editori a pagamento, ma non mi pare ci sia molta differenza.
Tanto per capirci, io ti mando il manoscritto, tu lo leggi e mi dici se credi che ci sia la possibilità di collocarlo. Poi ci firmiamo un bel contratto con tanti numeri e tu parti per fare il tuo lavoro.
Io non ti chiedo nient'altro finché il libro non sarà pubblicato e non avrò i primi guadagni, forse.
Ma neanche tu devi chiedere niente a me. E invece non è così.
Ma che razza di imprenditore sei se mi chiedi dei soldi per leggere il mio libro, a prescindere dal fatto che vada bene o sia una ciofecha tremenda? E neanche pochi, visto che per un libro di 3-400 pagine ci vogliono quasi 1000 euro.
E cosa mi manderai in cambio?
Una scheda di valutazione del libro!
Mi stai dicendo che per sentirmi dire che ho scritto una schifezza dovrei anche pagare? Ma se me lo dicono gratis!
Perché probabilmente quello mi scriverai, perché a te non importa affatto di me e del mio libro, a te importa che io paghi in anticipo e che tu non rischi neanche una telefonata a un fantomatico editore.
E allora, che differenza c'è con un editore a pagamento? Neanche lui rischia perché i soldi se li prende prima.

Che bello fare l'imprenditore così.
I miei clienti invece difficilmente mi pagano in anticipo e pretendono dei risultati, quarda che strana gente esiste. E credo sia così in tutto il mondo.
Ma tu sei bravo a dire e non dire e a far credere che poi potresti anche trovare l'editore, e allora quelli che da soli hanno ricevuto solo rifiuti, crederanno che tu invece possa trovare le strade giuste per i loro capolavori.
Ti do un suggerimento, fai un accordo con qualche editore a pagamento e fornisci il servizio completo di spennatura. Non lo so se qualcuno lo fa già, potresti essere un precursore.
Per quanto mi riguarda non credo che possa essermi utile la tua scheda di valutazione. Non è fra le mie aspirazioni incorniciarla per farla vedere agli amici.
Neanche i diplomi di scuola ho incorniciato e quelli almeno erano veri.
Vorrei farti altre domande, ma credo di conoscere già le risposte.
Perciò ti mando un cordiale saluto, e stasera leggiti un libro vero.
Lascia stare il lavoro per una volta. La scheda di valutazione la potrai compilare domani o anche la prossima settimana.
Tanto il bonifico del pollo è già arrivato.

Se io fossi uno scrtittore


1) Penserei più a scrivere che a pubblicare.
2) Non permetterei, pur di pubblicare a tutti i costi, che il mio libro venisse stravolto da qualche professore di lettere frustrato. E' finito il tempo dei temi in classe.
3) Scriverei tutti i giorni, anche se poco, anche se fossi stanco.
4) Mi comprerei un taccuino e mi segnerei le idee che vengono quando vogliono e poi te le dimentichi quando ti servirebbero.
5) Comincerei ogni capitolo con la frase migliore che riuscissi a trovare per agganciare il lettore.
6) Lascerei in sospeso la storia alla fine di ogni capitolo, per lo stesso motivo di cui sopra.
7) Saprei che la storia è importante, ma anche il modo in cui la scrivi fa la sua parte. Si chiama stile.
8) Non userei parole inutili per allungare il brodo o che non stessero bene con tutte le altre.
9) Mi ricorderei che la gente legge di fretta e spesso distrattamente e che leggere non è un lavoro ma un piacere.
10) Cercherei di evitare le frasi fatte tipo: “l'aria cristallina”, “la prua fendeva l'acqua”, “la natura era in festa”.
11) Se proprio fosse necessario inserire delle citazioni in un'altra lingua, non darei per scontato che tutti la conoscano e metterei la traduzione.
12) Non cercherei di ingraziarmi gli altri scrittori facendo loro i complimenti nella speranza di un aiuto. Gli scrittori non si aiutano mai fra di loro. Io sono un'eccezione.
13) Mi cercherei un lavoro vero, perché se decidi di vivere di scrittura dovrai scrivere quello che vuole chi ti dà da vivere. Anche se lui non te lo chiede.
14) Se dovessero chiedermi un parere direi la verità, anche se probabilmente non sarebbe gradita.
15) Dopo aver terminato un libro o un racconto, lo lascerei nel cassetto fin quasi a dimenticarmelo. Poi lo rileggerei come se l'avesse scritto un altro.
16) La mia prima regola sarebbe di non annoiare il lettore.
17) Non farei leggere a nessuno quello che sto scrivendo prima di terminarlo. E tanto meno lo leggerei di persona in pubblico.
18) Non farei leggere il mio manoscritto a persone che non conoscessi almeno di viso.
19) Non sarei disposto a fare qualunque cosa pur di vedere il mio nome sulla copertina. Ci sono cose più importanti e anche se dovessi vincere il Nobel per la letteratura, il 99,999% della gente non saprebbe chi sono e quasi tutti non saprebbero leggere quello che scrivo.
20) Collaborerei al massimo con l'editore per far conoscere e vendere il mio libro, ma gli ricorderei che l'editore è lui e vendere il libro è compito e interesse suo.
21) Darei la giusta importanza alla notorietà, cioé poca.
22) Ricorderei all'editore che non è tanto importante vendere molte copie quanto vendere tutte quelle stampate.
23) Mi preoccuperei delle critiche positive. Perché significherebbe dover fare meglio la volta successiva.
24) Prenderei atto delle critiche negative, senza però farne una tragedia.
25) Un refuso nel testo porta fortuna. Troppi è sintomo di scarsa cura.
26) Non leggerei altri libri mentre sto scrivendo un romanzo, perché rischierei di trovarne uno bello ed esserne influenzato, anche involontariamente.
27) Leggerei molto prima e dopo, per non inventare di nuovo la ruota.
28) Non adulerei nessuno, tanto se sei bravo ti trovano lo stesso, altrimenti se non ti trovano è anche meglio.
29) Non crederei a quelli che mi dicono che sono bello, intelligente e bravo, solo perché conosco un editore.
30) Dovrei imparare che anche se io non farei mai certe cose, non è detto che gli altri non le facciano.
31) Comprerei una casa a Postumia, nel caso di dover essere pubblicato postumo.
32) Capirei che i soldi a volte vengono e a volte no e non sempre dipende dalle capacità. E che ci sono altri lavori, forse anche più utili e sicuramente più remunerativi.
33) Scriverei perché piace a me, ma non quello che piace solo a me.

Francesco.     

Se io fossi un lettore


In realtà lo sono, ma non tutto va come vorrei. Questo è quello che mi piacerebbe.
1) Vorrei che i libri fossero scritti pensando a me e non ai critici o agli amici dell'editore.
2) Vorrei poter acquistare, anche ordinandoli, libri non più in catalogo.
3) Alle presentazioni dei libri vorrei non sentirmi un estraneo in mezzo a parenti e amici dello scrittore.
4) Non vorrei vedere gli scrittori che amo farsi intervistare in TV e dire banalità senza senso o spiegare quello che volevano dire con il loro libro, anzi “la loro opera” come amano dire. Se non ti capiscono è segno che ti sei spiegato male. E sentire sciocchezze come quelle delle candidate a miss Universo che chiedono tutte “la pace nel mondo”. Ma almeno quelle sono belle ragazze.
5) Non vorrei che i libri costassero per forza poco, ma che valessero quello che costano.
6) Non mi lamenterei sempre che la gente legge poco. La gente ha sempre letto poco perché per leggere bisogna usare il cervello. E spesso è faticoso.
7) Vorrei avere più tempo per leggere.
8) Non vorrei più sentirmi dire che sono antiquato perché preferisco i libri di carta, che posso mettere in biblioteca dopo averli letti. E prenderci appunti, e farci le orecchie.
9) Non vorrei dover lasciare un Kindle o un iPad a mio figlio.
10) Non presterei i libri, perché non tornano più indietro.
11) Non chiederei libri in prestito perché se non li compri neanche li leggi.
12) Continuerei a regalare libri, per le feste. Anche se lo so che i miei nipoti mi odiano.
13) Vorrei che i piccoli editori continuassero a cercare per me i veri nuovi scrittori, che di sicuro ci sono. Quelli grandi sono ormai “librifici”.
14) Vorrei che non facessero il film prima che io abbia letto il libro.
15) Mi piacerebbe che i giornalisti non rivelassero la trama del libro che recensiscono.
16) Vorrei che gli scrittori la smettessero di credere che noi lettori acquistiamo i libri perché se ne è parlato in TV e sui giornali dei critici loro amici.
17) Vorrei che gli scrittori si rifiutassero di registrare interviste che poi andranno in onda alle due di notte.
18) Mi piacerebbe che gli editori, oltre ai contenuti, com'è ovvio, curassero di più la stampa e la rilegatura. E che “aprire un libro” significasse quello che significava un tempo e non pagine che volano sparse.
19) Se fossi un lettore butterei nel cestino i libri senza anima, quelli scritti per accontentare le mode del momento. Del calciatore, dell'attrice, o del giornalista famoso.
20) Se fossi un lettore mi piacerebbe che nelle case ci fosse uno spazio per i libri, anche piccolo. Perché i libri che ti cambiano la vita sono pochi. Gli altri arredano e basta.
21) Vorrei che su ogni libro ci fosse un indirizzo, meglio se email, per scrivere all'autore e dirgli se il suo libro mi è piaciuto oppure no.
22) E infine mi piacerebbe che gli scrittori apprezzassero anche le critiche e si ricordassero che pubblicare non significa solo avere il nome sulla copertina. Pubblicare significa saper accettare i complimenti senza sentirsi un dio. E le critiche, senza sentirsi un dio.
E stasera aprirò un altro libro, comprato ieri.
Sperando che sia quello che, se non mi cambierà la vita, mi faccia almeno passare una serata con qualcuno migliore di me.

Se io fossi un editore

Per fortuna non lo sarò mai, perché ho già i miei di problemi, come tutti, e non ho alcuna voglia di combattere con scrittori che si credono tutti candidati al premio Nobel per la letteratura.
Non vorrei affatto dover fare loro da confessore, consigliere, finanziatore (che è peggio!) oppure pacificatore fra quelli che litigano per le solite gelosie da prime donne.
Ma se per disgraziata ipotesi io fossi un editore ecco cosa farei e cosa non farei.
1) Non perderei tempo con coloro che si credono giovani promesse e che non vogliono in realtà diventare promesse mantenute. Con quelli che non vogliono capire che un romanzo non si scrive di getto in una notte insonne. Che per creare qualcosa di serio ci vogliono tante serate rubate al sonno o al lavoro, anche quando non ne avrebbero voglia e la tentazione sarebbe di stravaccarsi davanti alla tv, con il cervello al minimo.
2) Allontanerei con decisione chi crede che l'editore sia un suo servo o una maestra con la penna rossa che passi il tempo a correggere i suoi errori di grammatica, sintassi o anche solo di battitura.
3) Non accetterei neanche di leggere gli scritti di coloro che si fanno precedere da lettere di “presentazione” o da telefonate di raccomandazione. Lo fanno, oh se lo fanno.
4) Non rischierei di perdermi “il libro del secolo” per non aver aperto quel plico. Lo so che dopo decine di pacchi di carta e inchiostro sprecati, dopo una giornata faticosa e a volte inconcludente, può venire la voglia di buttare nel sacco nero dell'immondizia quello che rimane sul tavolo e andarsene a dormire. Ma “partita finisce quando arbitro fischia”. E quella busta rimasta per ultima potrebbe decidere se la mia casa editrice continuerà a vivacchiare di stenti e sacrifici personali oppure potrà svilupparsi come mi merito.
5) Non accetterei testi per email. Se un autore, oltre a creare, deve preoccuparsi di far stampare la sua opera da una copisteria decente, di farla rilegare e metterci una copertina, forse se non è sufficientemente motivato lascerà perdere. Probabilmente senza grossi danni per la letteratura.
Ed è anche una forma di rispetto per chi dovrà leggere quelle pagine.
Caratteri della giusta dimensione, non microscopici per risparmiare nella spedizione e sulla stampa. Spediti per posta ordinaria perché andare a ritirare le raccomandate è una enorme perdita di tempo, specialmente nelle grandi città. Non parliamo poi dei corrieri. Che arrivano sempre quando non ci sei.
6) Accetterei che i manoscritti mi venissero consegnati di persona dall'autore. Ovviamente su appuntamento, perché nella vita ho anche altro da fare.
Ma mi piacerebbe guardare in faccia il futuro premio Nobel e parlarci per qualche minuto.
Potrebbe dirmi cose che mi invoglierebbero a leggere il suo libro, oppure me ne farebbero passare subito la voglia, con grande risparmio di tempo.
7) Non giudicherei dalle apparenze, nè dall'età o dal titolo di studio.
8) Non accetterei mai opere sotto pseudonimo o anonime. Se anche uno si chiama Pippo De Pippis, lo pseudonimo se lo può trovare dopo, se proprio si vergogna del suo nome, ma io esigerei di conoscerlo fin da subito.
9) Scarterei subito i plichi troppo “originali”. Quelli incartati in confezioni assurde per farsi notare fra gli altri. Una busta è una busta, il resto è inutile folclore, buono a gettare fumo negli occhi degli sprovveduti. E' il testo quello che conta.
10) Eviterei assolutamente di rispondere a coloro le cui opere risultassero impubblicabili. Si arrabbiano molto e in questo mondo di matti non lo sai quello che potrebbero fare. Considerando che conoscerebbero il mio indirizzo. Lo so che fare l'editore è un lavoraccio, ma vorrei continuare a farlo per un altro po' di tempo, andando in ufficio con le mie gambe.
11) Pagherei puntualmente le fatture del tipografo e dei collaboratori, ma non assumerei nessuno come dipendente. E' il modo migliore per rovinarsi.
12) Metterei al primo posto fra le priorità quella di VENDERE i libri. Primo perché se li regali non li leggono, secondo perché il lavoro non si può regalare, come diceva Petrolini, che non regalava biglietti omaggio neanche ai parenti.
13) Stamperei solo le copie che penso di vendere, in digitale si fanno cose egregie oggi, se si ha uno stampatore come si deve. Se poi ne serviranno altre ci vorrà poco tempo e poca spesa a ristamparle. Si risparmierà in carta sprecata e in spese di magazzino.
14) Stabilirei rapporti di collaborazione con i miei colleghi, quando possibile (a volte gli editori litigano peggio degli scrittori) per ottimizzare costi e spese di stampa, garantendo al tipografo una certa quantità di lavoro e cercando di ottenere dei prezzi più convenienti.
15) Non pubblicherei testi di scarso o nullo valore solo perché l'autore potrebbe “essermi utile”. Sono cose che si scontano sempre, perché il lettore, il mio vero cliente e colui che tiene in vita la mia casa editrice, non ha piacere di essere turlupinato.
16) Ogni tanto uscirei dall'ambiente di lavoro e vivrei la normale vita banale di tutti gli altri. Per riflettere e farmi venire nuove idee.
17) Mi ricorderei spesso che è vero che bisogna essere bravi e competenti, ma nella vita la correttezza e un buon carattere fanno sempre la differenza.
Questo sono le cose che farei e non farei, se fossi un editore.
Ma per fortuna non lo sono, perciò questa notte dormirò tranquillo.

Non regalare il tuo libro


Anche se l'obiettivo finale di chi scrive è quasi sempre (salvo rare eccezioni) quello di pubblicare, non dovrebbe essere così.
Pubblicare è la conseguenza di un libro scritto bene. Non sempre succede, ma questo non significa che il tuo libro faccia schifo, anche se qualche volta è proprio così.
Ma supponiamo invece che sia un capolavoro.
Beh, non cedere alla tentazione di regalarlo al primo che capita.
So di persone che hanno firmato contratti ventennali, cedendo in pratica i diritti del proprio libro al primo editore disposto a pubblicarlo.
E la cosa peggiore è che ormai lo fanno anche gli editori a pagamento!
Ma come? Oltre che pagare per vedere il nostro libro stampato, glielo regaliamo pure?
E invece succede.
Ma i contratti bisogna leggerli bene e fino in fondo.
Se posso dare un suggerimento, fatti dare il contratto e portatelo a casa.
Leggilo con attenzione e, se vuoi, fallo vedere a qualcuno che se intende.
Informati più che puoi sul diritto d'autore.
Ma cosa più importante, non aver timore di contrattare la scadenza del contratto.
Un periodo accettabile può essere tre anni, passato il quale il contratto può essere rinnovato con l'accordo delle parti, ma leggi bene eventuali clausole di rinnovo automatico se non si invia disdetta scritta.
Tanto che hai da perdere?
Se l'editore è davvero interessato accetterà di trattare, altrimenti amici come prima, cioè per niente.
Immagina che un giorno tu diventi davvero un famoso scrittore, vorresti ripubblicare il tuo primo libro e invece non puoi perché il libro in realtà non è più tuo.
Ti ricordi? L'hai regalato anni fa a uno sconosciuto.
Quindi oltre che a scrivere, dedicati anche a leggere, specialmente i contratti che firmi a cuor leggero.
      

Scrivete per soldi


Abbandoniamo ogni illusione.
Scrivere un libro è un lavoro, anche se lo si fa per hobby. Nel senso che richiede applicazione, intelligenza, sensibilità e tempo. E che bisogna farlo anche quando non se ne ha voglia.
E poi bisogna avere una storia da raccontare e questa è la condizione più importante, anche se la più ovvia. Talmente ovvia che molti se la dimenticano. E riempiono i loro libri di divagazioni, pensieri che non c'entrano niente, considerazioni che provocano solo l'allungamento del brodo.
E poi ci lamentiamo che gli editori non ci considerano neanche.
Allora mettiamoci nei loro panni.
Uno che decide di fare l'editore è matto. Oppure non alcun interesse a fare soldi.
Ma se la pazzia ci vuole, altrimenti si farebbe un altro dei tanti mestieri che consentono di lavorare di meno e vivere agiatamente, il non voler fare soldi è una vera e propria eresia.
Siete mai stati invitati a cena? Ovviamente sì. Mettiamo che vi abbia inviato a cena un vostro amico tipografo, offre lui. Voi pensate tranquillamente che una volta tanto la cena è gratis.
E qui sta l'errore. E vado a spiegarmi.
Il contadino che ha coltivato il grano usato per fare le tagliatelle ai funghi porcini che vi piacciono tanto ha dovuto alzarsi la mattina per andare a lavorare per le vostre tagliatelle.
Il produttore della pasta pure e il cuoco non ne parliamo. E i funghi credete che si raccolgano da soli? I porcini poi crescono sempre in posti scomodi...
E la cameriera? Ha bisogno dello stipendio, altrimenti starebbe a casa a giocare con suo figlio e non in piedi fino a mezzanotte mentre voi chiacchierate allegramente e non vi decidete ad andarvene.
E qui veniamo al vostro amico tipografo, quello che fra le altre cose stampa il libri di quel pazzo che ha deciso di voler fare l'editore. Per pagare il conto della vostra cena “gratis” ha bisogno che qualcuno gli paghi le fatture alla scadenza. Altrimenti diventa nervoso e non stampa più. Anche perché non avrebbe i soldi per acquistare la carta, l'inchiostro, e tutto il resto.
Questa necessariamente semplice e forse banale introduzione per dirvi che non c'è niente di gratuito in questa valle di lacrime e quello che la pubblicità definisce “gratis” dovrebbe essere definito “compreso nel prezzo”. Perché se non c'è un prezzo, state sicuri che un costo c'è sempre.
E allora, quando scrivete, quando mandate i vostri sudati manoscritti a un editore, non pensate alla gloria, non pensate alla fama. Pensate ai soldi. Quelli di chi, se tutto va bene, comprerà il vostro libro.
Ma voi e il vostro editore dovrete essere una squadra, non due che tirano a fregarsi, come spesso capita.
E il primo a guadagnare dai vostri libri deve essere lui, l'editore.
E dovete essere contenti di scrivere per soldi, senza cadere nella trappola di quelli che dicono “io scrivo per me stesso” pensando così di essere più intellettuali degli altri.
Se vuoi scrivere per te stesso fatti un diario, di quelli con la chiave in finto oro, oppure un blog che mai nessuno leggerà.
Altrimenti datevi da fare. Scrivete cose avvincenti, interessanti, divertenti o commoventi, ma che abbiano come obiettivo un lettore soddisfatto e che parlerà bene di voi.
Correggete, togliete quello che rallenta la storia, buttate senza pietà le cose venute male, limate il testo finché non scorra come se fosse facile scrivere.
E cercate la qualità nel vostro prodotto.
Perché di prodotto si tratta.
Sì, di quelli che si ottengono con il lavoro, non per hobby.
Tanto vale che lo sappiate.
Di quelli che si vendono. Altrimenti non vale.

Francesco

Leggere, scrivere e far di conto

Secondo me la scuola italiana, sempre accusata di far odiare i libri agli studenti, fa il suo dovere e non di più, ma neanche di meno.

In fondo una volta si diceva che nella vita bisognava saper leggere, scrivere e far di conto.
Io la penso proprio così.
Perché mai la scuola dovrebbe farsi carico di cose che non la riguardano?
In fondo insegna a leggere, non è tenuta ad insegnare anche a farsi piacere la lettura. Tanto non serve a niente.
Chi amerà leggere lo farà anche se da piccolo avrà solo ritagli di giornale abbandonati o i cartelli per strada. Come ci sono invece figli di letterati, con case piene di libri e che a malapena ne aprono uno ogni tanto.

Leggere è un piacere, deve essere un piacere, non un obbligo. Al massimo per obbligo si possono leggere i manuali che bisogna conoscere per lavoro.
Leggere è un piacere, e forse dovrebbero ricordarselo ogni tanto coloro che scrivono romanzi.

Francesco Pomponio