lunedì 17 febbraio 2020

Racconto: Amico di penna.

Il racconto del lunedì (17 febbraio 2020)

Amico di penna.

Il vento fresco del mattino portava odore di rose ed erba tagliata, il sole brillava fra i rami dei pini e asciugava in fretta l'umidità della notte.
Cartelle con le gambe di bambino si avviavano barcollanti verso la vicina scuola. Sui banchi dei  negozi si allineavano pizzette e panini che mani frettolose infilavano nelle borse, a ungere libri e quaderni.
"Quando andavo a scuola io mica portavo tutta quella roba." pensò Livia ricordando i suoi pochi libri legati con una vecchia cinta di elastico piena di scritte e nomi di attori.
Dalla  finestra guardava il parcheggio che si svuotava, come tutte le mattine. Era un bel giorno di primavera e stando affacciati al davanzale veniva la voglia di andarsene al mare che si vedeva brillare in lontananza.
Ma in certi casi le voglie bisogna farsele passare, e questo era uno di quei casi.
A malincuore distolse lo sguardo dai prati che si andavano ricoprendo di fiori gialli e dalle nuvole bianche che girellavano per il cielo.
Tornò dentro e si avvicinò al tavolo della cucina sul quale stava la tazzina del caffè preparatole da sua madre prima di uscire. Era freddo, ma per fortuna le piaceva così.
Sulle ginocchia teneva la scatola piena di lettere che stava rileggendo ancora una volta.
"Come fanno a dire che la gente non scrive più? Guarda qui che mucchio di posta." disse prendendo una delle ultime lettere della quale riconosceva la calligrafia. La scorse veloce con lo sguardo, soffermandosi sulle frasi che l'avevano colpita.
"Ma come gli vengono in mente certe cose? Forse se le prepara in brutta copia prima di scriverle."  pensò e le venne da ridere perché anche lei faceva lo stesso quando scriveva a qualcuno che le interessava.
"E poi se ci si dovesse incontrare davvero non sapremmo che dire."
Prese  il  blocco  di carta e la sua penna preferita e cominciò a rispondere sistematicamente a tutti, lasciando per ultime quelle che preferiva.
"A queste devo pensarci bene."
Le penne moderne non scricchiolano scrivendo, perciò nella stanza si sentiva solo il rumore dell'orologio sulla parete, che tagliava il tempo a pezzettini.

"E perché vorresti una richiesta scritta? Non ti basterebbe se te lo facessi capire e basta?" chiese Livia.
"No,  perché non sarei mai sicuro di aver capito e non voglio sbagliarmi con te.  Meglio  solo  amici che niente, e se sbagliassi non saremmo più neanche quello." rispose Ennio.
"Mi sembra di capire che sei vagamente timido..."
"Senza  vagamente,  sono  il tipo che se sbatte contro un lampione gli chiede scusa."
"Buona fortuna allora, ti servirà."
"Mah, non è così brutto come sembra, si convive discretamente con la timidezza, solo con le donne è un guaio, non si capisce mai quando è il momento di farsi avanti."
"Per questo vuoi delle richieste scritte?"
"Sì, almeno sono sicuro di non sbagliare."
"Qualcuno  disse  una  volta che i trattati sono pezzi di carta senza valore, cosa  ti  fa  credere  che  le parole scritte da una donna siano più vere di quelle dette a voce?"
"Non  lo  so. Però scrivere è più impegnativo che parlare e quindi se una ragazza lo fa vuol dire che è' proprio convinta."
"E  non  ti sorge il dubbio che potresti apparire presuntuoso con una pretesa del genere?"
"Sì effettivamente il dubbio mi è venuto."
"Ah, e come mai?"
"Perché nessuna mi ha mai fatto una richiesta scritta."
Livia rise leggermente vedendo l'espressione di Ennio, poi si voltò a guardare nel fiume, nell'inutile speranza di vedervi qualche pesce.
"Mia  madre  mi racconta che da piccola questo fiume era pieno di trote e le pescavano tirando loro dei sassi, ma mi sembra strano perché io non ne ho mai viste." disse.
"Si vede che le hanno pescate tutte." rispose lui.
Passeggiavano lungo le rive coperte d'erba e sopra di loro rombava la strada. La moto si raffreddava sotto l'ombra di un grosso salice i cui rami giungevano a sfiorare l'acqua e la borsa dei panini 
pendeva dal manubrio.
"Mangiamo qualcosa?" Chiese Ennio.
"Sì, così poi torniamo, prima che diventi notte."
"Ma se è ancora mezzogiorno."
"Lo so, ma come fa buio diventa subito notte."
"Questo è vero." disse Ennio, che era lento a capire le sue battute senza capo né coda.
Livia sorrise e si strinse a lui perché si divertiva a farlo arrossire.

Davanti al tavolo della cucina, mentre il sole attraversava il cielo e spostava le ombre sul pavimento, Livia scrisse a tutti i suoi amici lontani che conosceva  solo di  calligrafia. Poi, facendo boccacce, leccò le buste e le chiuse con cura.
Le preparò da spedire per il giorno dopo, e solo allora vide la lettera che stava posata vicino al telefono, sul mobile nel corridoio. Non ne arrivavano tanto spesso, ma ogni volta le bastava fino alla successiva.
Il suo migliore amico scriveva molto, riempiva pagine e pagine con la sua calligrafia disordinata e  parlava di tutto, le raccontava le cose più banali e poche righe dopo si avventurava, con la stessa disinvoltura, in problemi esistenziali.
Livia rileggeva spesso le sue lettere e ogni volta ci trovava qualcosa di nuovo, di buffo o di profondo, ed erano buone per ridere o per pensare, a seconda del momento.
E poiché erano tante pagine, lei impiegava parecchio tempo per rispondere a tutto, ecco perché  preferiva farlo in più riprese, così per ogni lettera di lui ne partivano tre o quattro di lei.
Un po’ emozionata, si avvicinò alla finestra per leggere con comodo, ma stavolta c'era qualcosa di strano, il plico era insolitamente leggero, doveva contenere uno o due fogli al massimo.
Con molta attenzione tagliò il bordo della busta sulla quale mancava il timbro della posta, e ne trasse un foglietto di carta con l'intestazione di un albergo.

"Cara Livia, scusami se ti avverto con così poco preavviso, ma tutte le volte che ci siamo scritti  non abbiamo mai pensato a lasciarci il numero di telefono. Quando riceverai questo biglietto probabilmente avrai appena il tempo di pettinarti,  ma  non  ho potuto fare più in fretta di così. L'ho anche mandato per mezzo del ragazzo dell'albergo perché con la posta normale chissà quando ti sarebbe arrivato.
Ma è meglio se ti spiego tutto piuttosto che perdere tempo in preamboli. Dunque, mi trovo nella tua città per lavoro, ed è stata una cosa dell'ultimo momento, un mio collega si è sentito male e ho dovuto sostituirlo. E'  da qualche giorno che sono qui, ma non sapevo quanto avrei dovuto rimanere. Ora invece lo so, perché ho finito prima del previsto e vorrei approfittare di un po’ del tempo che mi rimane per incontrarci di persona, mi farebbe piacere vedere che viso hai, in fondo quella vecchia foto tessera che mi hai spedito tempo fa non ti rende certamente giustizia. E tu di me non sai neanche come sono fatto.
Se non hai altri impegni potremmo fare una passeggiata insieme e poi stasera andarcene a mangiare da qualche parte. Sono proprio curioso di conoscerti e spero che lo sia anche tu, di conoscere me voglio dire, tu ti conoscerai già.
Passerò nel pomeriggio di domani, il fattorino mi ha detto che questo foglio ti sarebbe stato portato entro oggi, ma se così non sarà vuol dire che ti farò una sorpresa. Ciao, ora devo salutarti, ma spero che ci vedremo presto."
La data era del giorno prima. Livia voltò il foglio per vedere se ci fosse scritto qualcos'altro, ma c'era solo una macchiolina d'inchiostro.
"E adesso come faccio? Non avevo mai pensato che potesse capitare da queste parti, ora dovrò trovare una scusa per non andarci." disse con il cuore agitato e le mani che tremavano.
"Accidenti a me! Avrei dovuto dirgli fin dall'inizio come stavano le cose, e invece zitta, e adesso questo mi si presenta all'improvviso. E io non so che fare." pensava aggirandosi per casa.
Inavvertitamente si ritrovò a cercare inutilmente di togliere la polvere dai ripiani più alti e a riporre i libri fuori posto, ma era tardi per fare ordine.
"Se  pensa  di fare una passeggiata - pensò sorridendo - probabilmente verrà presto."
L'orologio segnava quasi le tre e lei non aveva ancora pranzato, si avvicinò al frigorifero per prendere qualcosa, ma  si accorse di non avere fame o meglio, il suo stomaco non aveva intenzione di lavorare, intento com'era a preoccuparsi.
"E adesso come faccio?" Si ripeteva; e seduta davanti alla finestra, osservava tutti quelli che si dirigevano  verso  il  portone del palazzo, con la paura di sentir suonare il campanello.

E invece suonò il telefono.
"Chi è?" Domandò la ragazza afferrando la cornetta.
"Me lo chiedi con quel tono? Non ti ho mica ho disturbato?" Rispose la voce.
"No, scusami ma ero soprappensiero, dimmi." disse riconoscendo Ennio.
"Niente, volevo solo sentire come va?"
"Potresti venire di persona qualche volta, se vuoi sapere come va."
"Lo so, hai ragione, sono una bestia a non farmi mai vedere, ma ora lavoro e non ho più un momento libero, ti prometto però..."
"Non  devi promettermi niente, fai come ti pare, se vuoi venire sai dove sto, anzi sai che ti dico? Non venire proprio, non vorrei che il tuo lavoro ne risentisse."
"Non devi prenderla così."
"C'è una frase che esprime chiaramente come dovrei prenderla, ma lasciamo perdere, tanto questa è la legge del Menga."
"Sei acida oggi."
"E sarò acida pure domani, ed ero acida ieri e lo sarò dopodomani, e spero di diventare talmente acida da corrodere i tipi come te."
"Forse era meglio se non telefonavo."
"Togli il forse, e visto che siamo in argomento, piantala con queste telefonate espiatorie settimanali,  vai a farti fottere. Anzi no, sarebbe troppo bello per te. Rimani come sei, ed è il peggiore augurio che potrei farti."
"Senti, adesso ho da fare, ti richiamerò quando ti sarà passata, ciao." Disse Ennio.
Livia non rispose e aspettò di sentire il rumore del telefono riappeso prima di chiudere anche lei.
"Non credo che mi passerà, accidenti a lui e a quel suo trabiccolo a due ruote. Deve lavorare, poverino. Che possano licenziarti per eccessivo rendimento."
Tornò vicino alla finestra e rilesse ancora una volta il biglietto del suo amico sconosciuto.
"Ho fatto male a spedirgli la foto, anche se oggi sono completamente diversa, sarebbe stato meglio se non lo avessi fatto, ma ormai..."
Il sole si nascondeva dietro i palazzi e fra poco l'ombra sarebbe giunta alla sua finestra. L'aria  sarebbe diventata fresca e avrebbe portato l'odore delle colline che vedeva lontane, velate da una foschia celeste.
Rimase a pensare a quello che stava per accadere, e poi come sempre si ritrovò a fantasticare, ad immaginarsi il futuro e a travisare il passato, per tirarne fuori solo i ricordi piacevoli.
E non si accorse del tempo che passava e delle nuvole chiare che veleggiavano all'orizzonte, nel cielo sopra il mare. I bambini avevano finito i compiti e dalle finestre delle case si diffondevano le musiche dei cartoni animati e delle pubblicità di giocattoli.
Livia si era addormentata senza accorgersene e sobbalzò quando sentì il suono del citofono. Guardò l'orologio e sperò che fosse sua madre che tornava, ma era troppo presto, allora volse lo sguardo giù nel cortile, ma il portone da lì non si vedeva.
Con le mani che tremavano si avvicinò alla porta mentre il campanello suonava ancora.
"Speriamo che ci abbia ripensato e che sia il solito venditore di pentole." pensava mentre  domandava chi fosse. Invece era proprio lui.
"Mi scusi, abita qui Livia Celi?" chiese una voce giovanile.
"Chi la desidera?" domandò lei per prendere tempo.
"Sono un suo amico, le ho spedito un biglietto per avvertirla, vorrei solo salutare."
"Livia non c'è, sono tre giorni che è partita."
"Con chi sto parlando, per favore?"
"Sono la sorella, è arrivata una busta stamattina, ma nessuno l'ha aperta visto che era indirizzata a lei."
Per un istante nessuno rispose.
"Pronto?" disse Livia temendo che se ne fosse andato e subito dopo si sarebbe presa a schiaffi per la sua goffaggine, dire 'pronto' in un citofono.
"Sì, sono qui, è che mi avrebbe fatto piacere conoscerla, adesso chissà quando capiterò di nuovo da queste parti."
"Mi  dispiace." disse lei e avrebbe voluto che potesse capire quanto davvero le dispiaceva.
"Va bene, vuol dire che le lascerò due righe e qualcosa che avevo portato."
"Può metterlo nella buca delle lettere." rispose la ragazza con la voce che tremava.
"Non credo che ci entrerebbe, posso salire un momento? Mi dispiace disturbarla, ma qui sta diventando imbarazzante parlare al citofono, ci sono persone che aspettano per entrare."
Livia esitò un momento, ma non trovò più scuse e forse neanche voleva trovarle.
"In fondo sono mia sorella, no? Almeno lo vedrò in faccia." pensò.
"Va bene salga pure, è al quarto piano."
Con le mani si riavviò i capelli e col cuore in gola attese il suono del campanello. Passarono  momenti interminabili, l'orologio ticchettava e Livia aspettava nel corridoio in penombra, mentre la luce del tardo pomeriggio entrava fioca dalle finestre spalancate sulla fine del giorno.

Un giovane più o meno della sua età stava fermo sul pianerottolo tenendo in mano un pacchetto e un mazzolino di fiori.
"Buona  sera,  mi  perdoni se disturbo, forse avrei dovuto avvertire con più anticipo, ma è stata una cosa improvvisa."
Livia si spostò per farlo entrare e si trattenne dal dirgli che sapeva tutto, ricordando appena in tempo di essere 'sua sorella’.
"Non si preoccupi e la smetta di scusarsi, a me non dà alcun fastidio." pisse precedendolo verso la cucina.
"Mi scusi se la faccio accomodare qui, ma di là c'è un po’ di disordine."
"Si figuri, io mi trovo meglio sulle sedie piuttosto che in poltrona, sarà perché non ho mai il tempo di accomodarmi."
"Sempre di fretta?" chiese lei tanto per dire qualcosa.
"Sempre. Gioco di fretta perfino a scacchi, con i risultati che può immaginare."
Livia sorrise.
"E allora dove lo trova il tempo di scrivere quelle lunghe lettere a mia sorella?"
"Le ha lette anche lei?"
"Ci mancherebbe altro, io sto sempre in casa, perciò sono quella che riceve la posta, ma non mi impiccio dei fatti degli altri."
"Non intendevo dire questo, mi scusi, pensavo solo che fra sorelle..., ma a proposito,  Livia  non  mi ha mai detto nelle sue lettere di avere una sorella."
"Lei glielo ha chiesto?"
"Beh, no, di certo non le ho fatto una domanda così specifica, però..."
"Forse non aveva voglia di parlare di me. E' comprensibile no?"
"Mah, non lo so, lei mi sembra una persona simpatica."
"Anche lei lo sembra e probabilmente lo è, se mia sorella continua a scriverle."
Appoggiato allo stipite della porta il giovanotto se ne stava in piedi, tenendo in mano i fiori e il pacchetto.
"Posi tutto là sopra, penserò io a sistemarli e grazie, a nome di Livia."
"Di nulla, è stato così imbarazzante giù all'ingresso con questo mazzo di fiori. Mi guardavano tutti con tanto d'occhi, chissà perché poi. Che c'è di strano a portare dei fiori a una ragazza?"
"C'è gente stramba in questo palazzo, conviene non farci caso."
Il giovane rimase un momento a spostare il peso da un piede all'altro, poi non sapendo più che dire si avvicinò alla finestra.
"Si sta facendo notte."
Livia lo fissava in silenzio. Era proprio come se l'era immaginato e questo la stupiva. Perché l'aveva immaginato proprio come piaceva a lei.
"Posso offrirle un caffè?" chiese, per non mettersi a piangere.
"No, non si preoccupi, adesso me ne tornerò in albergo, mangerò qualcosa e domattina ripartirò.”
Si diresse verso la porta e Livia lo seguì. Sulla soglia si voltò.
Per un breve istante si guardarono, poi lui le porse la mano e strinse la sua quel tanto che bastava.  "Forse ho fatto male a venire in questo modo, ma mi ha fatto piacere conoscerla."
"Anche a me ha fatto piacere, lei è proprio come Livia pensava."
"E lei come fa a sapere quello che pensa Livia?"
"Siamo sorelle, no? Qualcosa mi racconta."
"Stando alla foto che mi ha mandato vi somigliate moltissimo, sembrate quasi gemelle." Disse il giovane con un sorriso.
"No, no, io sono più vecchia." rispose lei con un filo di voce.

La porta si chiuse e i passi si allontanarono svelti per le scale. Livia tornò piano nella cucina che ormai era quasi buia e prese i fiori che stavano sul tavolo. Poi si avvicinò alla finestra e vide il giovane allontanarsi. Lo guardò finché lui se ne accorse e si voltò a salutarla prima di girare l'angolo.
Lei rimase per un po’ ad osservare la sera che scendeva sui campi, nelle case e sul mare lontano poi lentamente, cercando nel passare di non rigare i mobili, si diresse verso la sua stanza.
Facendo forza con le braccia si trasferì dalla carrozzella al letto, dove rimase sdraiata a cercare di muovere i piedi, ma dopo un po’ lasciò perdere.
"I  miracoli non sono molto frequenti, non ci dovevo salire su quella moto." disse a voce bassa.
"Ma gli scriverò la verità, tanto ormai mi ha visto e ha detto che sono simpatica lo stesso."
Strinse a sé i fiori portati dal suo amico e rimase a fissare la sera che lentamente scuriva e se non piangeva era solo perché credeva fosse inutile.


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Tratto dalla raccolta di racconti di Francesco Pomponio
"La macchina del tempo esiste già"
Diamond Editrice.

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francesco.pomponio@gmail.com

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