martedì 3 marzo 2020

Racconto: Il mare della Terra

Il racconto del lunedì (2 marzo 2020)

Il mare della Terra
di Francesco Pomponio

Era la fine dell'estate, ma gli uccelli non volavano a sud.
Anzi, neanche c'erano uccelli in giro, e le uniche cose a volare nell'aria ventosa erano le nuvole grigie che percorrevano il cielo della grande pianura.
L'aria era fresca e si avvertiva nelle ossa il freddo che presto sarebbe arrivato; con il lungo inverno avrebbe fatto dimenticare le belle giornate. Per questo essi si ostinavano a rimanere all'aperto, anche se dentro la casa ardeva già il fuoco nel camino e gli altri li guardavano dai vetri con sorrisi di commiserazione.
Ma cosa c'era di meglio che starsene a suonare nel portico, mentre il vento spettinava i capelli, a chi ancora li aveva?
Non era granché come quartetto, ma sicuramente era il migliore su quel pianeta, visto che c'era soltanto quello.

"Non avrebbero dovuto farvi partire a voi, alla vostra età a cosa potete servire in un posto come questo?" Aveva detto con poca cortesia il capo del gruppo di coloni quando li aveva visti, raggruppati a tremare di freddo accanto ai loro pochi bagagli. 
L'astronave era da poco scomparsa per tornare sulla Terra e la gente rimasta nell'erba si stava organizzando per trascorrere la prima notte nelle nuove case.
"Beh, potremmo se non altro raccontare com'era la Terra quando voi non c'eravate, come vivevamo prima che gente come te decidesse che di noi si poteva fare a meno. Forse a voi non interesserà, ma spero che i vostri figli saranno più intelligenti di voi." Aveva risposto quello che ora faceva da primo violino.
"Però è vero, non abbiamo portato neanche un nonno, mi piacerebbe averne uno." Era intervenuto un ragazzino.
"Io invece vorrei un cane." Aveva detto un altro.
"Ma i nonni sono meglio, non abbaiano e non mordono."
"Perché non hai conosciuto il mio!"
La gente aveva riso, poi qualcuno aveva raccolto le loro valigie e aveva accompagnato i vecchi nella casa loro riservata.

Poi si era fatto buio e tutti si erano diretti verso le piccole abitazioni, tenendo in una mano la mano di persone care, e nell'altra la busta della cena fredda distribuita per quella prima sera.
Piccole luci si erano accese alle finestre e ondeggiando si erano spostate ad esplorare le stanze, dove quella prima notte, nei letti rifatti alla meglio, i bambini avrebbero dormito con i grandi, per farsi coraggio insieme.
Il vento aveva soffiato per tutta la notte, spazzando l'erba e fischiando agli angoli delle case.

La maggior parte dei loro bagagli era formata dagli strumenti, per il resto solo pochi vestiti e qualche fotografia di quelle che ingiallivano, di quando le stampavano ancora sulla carta.
Sedevano sul cofano di auto ormai distrutte da tempo, e abbracciavano ragazze anch'esse sparite da tempo, cieli nuvolosi o prati scoloriti facevano da sfondo ai loro sorrisi imbarazzati e ai capelli lunghi e spettinati dei giorni di vacanza.
Le tenevano sui comodini, insieme alle medicine e a qualche spartito di Mozart che stavano studiando.
Poi, due volte la settimana si riunivano in quel portico aperto sulla pianura d'erba e provavano, cercando di dare un'orchestra a quella piccola comunità, per non far dimenticare la vera musica.
Quella che non esce dai lucidi dischi, perfetta e pulita, rumore gradevole e senza odori, senza il respiro di chi strofina l'archetto sulle corde, senza il sudore che scende nel collo, senza le punte delle dita intorpidite, prima di fare i calli.
Loro volevano far conoscere a quelle persone la musica che viene fuori da quei fogli pieni di palline nere e che non ti immagini cosa sia finché non l'hai suonata.

Il sole attraversava lento l'orizzonte lottando svogliatamente con le nuvole. A sprazzi illuminava di rosso i muri della casa e costruiva lunghe ombre sul pavimento di pietra. Qualche foglia volava fra i piedi dei musicisti e spinta dal vento, andava ad incollarsi sui vetri delle finestre.
Gli spartiti, saldamente fissati dalle mollette, si agitavano cercando di voltarsi prima del tempo.
"Non siamo così veloci, abbi pazienza ventaccio del cavolo!" Disse il violino.
"E poi abbiamo dei tempi da rispettare, mica si possono fare gli arrangiamenti personali su Mozart." Aggiunse il violoncello.
"Potremmo anche farli, tanto Mozart mica se la prenderebbe a male, ma non siamo abbastanza bravi neanche per suonarlo normalmente..." Commentò l'altro violino.
Il pianoforte concluse con le ultime note del brano che stavano provando.
"E' ora di rientrare, fra un po’ sarà notte." Disse il pianista chiudendo lo spartito e la tastiera.
Era il più giovane, anzi era un ragazzo, ma era lui a dirigere il gruppo perché sapeva leggere la musica, gli altri erano solo volenterosi autodidatti.
Per dieci anni aveva studiato in una scuola sulla Terra, poi per un po’ di tempo aveva anche insegnato.
Ma era venuta la crisi, e la gente non aveva più soldi da spendere in musica, e poi quella che andava allora di moda non si poteva suonare ma solo ascoltare, ed era difficile anche canticchiarla facendosi la barba o alle feste con gli amici. 
Ammesso che ci fosse stata ancora la voglia di fare feste, o amici da invitare.
Gli sarebbe piaciuto poter ricominciare in un mondo dove le cose che sapeva fare sarebbero state apprezzate e perciò era stato colpito da quell'annuncio sentito alla radio.
I suoi non c'erano più, suo padre che per mestiere guidava un veicolo da carico, si era buttato dalla finestra dopo l'invenzione del teletrasporto per le merci, quando aveva perso il lavoro. Sua madre l'aveva seguito pochi giorni dopo, perché il giorno del loro matrimonio aveva giurato di seguirlo ovunque.
Era caduta nello stesso punto del marciapiede e a lui era quasi venuto da ridere quando glielo avevano detto.
Ma poi si era ritrovato da solo. 
Una ragazza non ce l'aveva e perciò gli costò poco presentarsi per essere messo nella lista di chi voleva andarsene. Chiese soltanto di portare con sé il pianoforte, e poiché in quel viaggio non c'era nessun altro pianista, il permesso gli fu accordato, anche se lo strumento pesava più del consentito. Fu fatto passare sotto la voce 'attrezzatura', ma  egli dovette rinunciare a una parte dei suoi libri e ad una parte dei suoi soldi perché l'impiegato chiudesse un occhio.

"Invece di rientrare chiudiamo la vetrata." Disse il violoncello.
"Va bene, ma se fa troppo freddo smettiamo." Rispose il pianoforte.
"Hai paura di rovinarti la voce? Mica facciamo opere liriche qui." Intervenne uno dei violini.
"Ho paura che vi roviniate le articolazioni, alla vostra età..." Sorrise il giovane.
Le vetrata fu chiusa e il vento rimase fuori a scuotere le piante e a cercare di infiltrarsi nelle fessure.
Il gruppo riprese le prove con impegno e cento volte riprovavano lo stesso passaggio, fino ad eseguirlo alla perfezione. Perché in fondo, anche se non si prendevano sul serio, non erano poi così male come musicisti.

"E io che credevo che la chiave di violino fosse un sistema per non farselo rubare." Disse il violoncello durante una pausa.
"Cerca di essere serio se ti riesce."
"E perché mai? Mozart mica era un tipo serio."
"Ancora credi a quel vecchio film?"
"A me sarebbe stato simpatico così, perciò me lo immagino come mi pare, pensa a sviolinare tu invece di rimbeccarmi continuamente."

La notte era scesa sulla pianura e le montagne erano scomparse nell'oscurità, nessuna luce veniva da case lontane e non c'era una luna a rischiarare il cielo e offuscare le stelle.
Una fioca lanterna ardeva nel portico chiuso dai vetri, dove un giovane e tre vecchi cercavano insieme di non far dimenticare qualcosa di cui tutti avevano bisogno, anche se non lo sapevano.
Anche se in quel momento erano presi dalla necessità di sopravvivere in quel posto disabitato e così lontano dal pianeta dove erano nati.
Quando le cose si fossero sistemate essi avrebbero sentito la voglia di riunirsi la sera ad ascoltare i suoni di un mondo che non avrebbero più rivisto, dove il mare non stava mai fermo e il vento scuoteva gli stormi di uccelli che andavano al sud. Dove le nuvole erano solo intervalli fra belle giornate e non il colore costante del cielo.
Era un mondo malinconico, quello dove vivevano adesso. Il sibilo continuo del vento faceva desiderare un po’ di silenzio e il fuoco ardeva anche durante la breve estate, perché la sera il freddo scendeva dalle montagne nere e si aggirava nei vicoli regolari del piccolo villaggio. I vetri delle finestre gelavano e dentro i letti la gente si raggomitolava fra le coperte.
E col sonno pesante di chi fatica tutto il giorno non si accorgevano delle ore che passavano veloci, né della fiamma che pian piano si spegneva per diventare cenere tiepida al mattino.
E adesso il villaggio dormiva e nessuno ascoltava la musica che usciva dai vetri e si perdeva nell'oscurità.
Dentro la debole luce, gli uomini strofinavano sui loro strumenti, e l'unico tempo che contava era quello segnato sui fogli pieni di palline nere. 

Ma ormai si era fatto tardi, ed era l'ora di andare a dormire.
La vetrata illuminata spiccava nel buio che avvolgeva le poche case. 

Fuori, l'erba della pianura ondeggiava piegandosi al vento in un frusciare senza fine, come il mare della Terra.


Francesco Pomponio

Tratto dalla raccolta di racconti di Francesco Pomponio
"La macchina del tempo esiste già"
Diamond Editrice.

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Disponibile su Amazon in formato Kindle.
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francesco.pomponio@gmail.com


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